Fabrizio De André

Ho Visto Nina Volare

Nell’aria l’odore del sale, portato da un vento che spira da est. È pomeriggio, primavera inoltrata. Sotto il tetto della legnaia appena fuori casa, in campagna, a pochi metri dal grande gelso ombroso con le foglie grandi e morbide come i dorsi delle mani della nonna un’immagine lussuriosa: mio papà estrae da un grosso cilindro meccanico una tavola giallo-dorata che stilla miele; poi spezza gli angoli della tavola di cera e me ne porge un pezzo. Lo metto in bocca e mastico appena, lo succhio e il suo sapore esplode, la dolcezza sfreccia alla testa come un pugno che fa quasi male. Raccatto con la lingua la cera strizzata dal miele, tenerla tra i denti mi riporta alla realtà. La sputo a terra. Oltre al gelso, poco più in là, il vento fa oscillare le due altalene su e su, avanti e indietro, avanti verso il grande giardino, indietro verso i campi e le nostre arnie. L’altalena, un'amica dolcissima e nauseante, proprio come il miele: le sue corde gemono ai colpi del vento. Oltre le due altalene, oltre la siepe di lauro, a pochi chilometri, c'è il mare.

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A queste sensazioni dei miei giorni bambini associo la canzone “Ho visto Nina volare”, ottava traccia di Anime Salve (1996), l'ultimo album di Fabrizio De Andrè; un testo che racchiude nei suoi versi una storia d’amore, di mare e di violenza, una storia che si snoda tra Piemonte, Genova e Basilicata. Negli anni della Seconda Guerra mondiale De André - i cui genitori sono entrambi piemontesi - viene sfollato con la famiglia a Revignano d’Asti. Qui abita una bimba, Giovanna Manfieri, che il cantautore, il poeta, vedeva tutti i giorni giocare nel cortile della cascina dove alloggia, e con lei trascorre ore a spingersi su di un’altalena, attaccata alle travi del porticato: «Ho visto Nina volare/tra le corde dell’altalena», Giovannina, o meglio, Nina, è coetanea di Bicio, di De André, e i due diventano presto amici. Questa è la cornice storica della canzone. Ma dalla sua Genova De Andrè si procura l’ingrediente marino, la cifra ermetica e cupa del mistero che si cela dietro alle cose che ci stanno più vicine: «un giorno la prenderò/come fa il vento alla schiena/ e se lo sa mio padre dovrò cambiar paese/ se mio padre lo sa m’imbarcherò sul mare». Nina Manfieri ci spiega che Bicio, forse, vedeva in lei un essere schiavizzato dalla realtà familiare e dalla dimensione sociale in cui era inserita ed egli, se avesse potuto, avrebbe voluto portarla via di là.

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In questa bimba che vola tra le corde io personalmente vedo un’immagine di morte, una metafora dell'impiccagione di uno spirito solitario. Nina è un’“anima salva”, come se il testo suggerisse una stratificazione di visioni. Sono le visioni di un fanciullo che gioca a fare l’eroe, ma il vento che arriva improvviso e spinge l’altalena lontano, fino al mare ligure, o addirittura sardo, innalzando la ninna nanna incantatrice di questo brano a un grido di libertà. Il fanciullo diviene adulto, si emancipa dal padre, e parte per il grande mare aperto. Un “padre” che è forse il padre di ogni sopruso, ed è maschio, mentre femmina è «l’ombra/ l’ombra che mi fa il verso». È l’ombra di questa visione notturna, di un sogno che cammina per i vicoli di un paese illuminato dalle sole stelle al ritmo lento e solenne della canzone.

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«Le ho mostrato il coltello/ e la mia maschera di gelso»: appare l’immagine ancestrale di un essere mascherato di fogliame, un'essere che impugna un’arma contro un male invisibile e impalpabile e che ha il sapore di un rituale ctonio, un rituale per ingraziarsi le divinità sotterranee. La figura ci porta per un attimo alla macchia della Sardegna, al suo entroterra, per scongiurare i pericoli del brigantaggio e delle antiche faide di paese che finiscono irrimediabilmente a coltellate. È un viaggio di dannazione e redenzione il volo di Nina, è un non-ritorno che segue la via del miele: ed ecco la Basilicata. «Mastica e sputa/da una parte il miele/mastica e sputa/dall’altra la cera»: le contadine di Matera masticano la cera d’api e sputano questa da una parte, il miele da un’altra, secondo una pratica antichissima. E questa è l’altra grande immagine che ispira De Andrè, che egli utilizza nel testo quasi come una proiezione quotidiana del giudizio universale: da una parte i buoni, dall’altra i dannati.

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Sarà che ho tanta nostalgia di quei pezzi di cera stretti fra i denti, sarà che il miele è per me fin troppo dolce da darmi la nausea, che preferirei volare insieme a Nina, scarna e leggera e sola, invece che starmene a terra a contare le mille e un'ape che si azzuffano per uno sputo di miele.

(Anna Scomparin)

Testo

Mastica e sputa
da una parte il miele
mastica e sputa
dall'altra la cera
mastica e sputa
prima che venga neve

Luce luce lontana
più bassa delle stelle
quale sarà la mano
che ti accende e ti spegne

Ho visto Nina volare
tra le corde dell'altalena
un giorno la prenderò
come fa il vento alla schiena
e se lo sa mio padre
dovrò cambiar paese
se mio padre lo sa
mi imbarcherò sul mare

Mastica e sputa
da una parte il miele
mastica e sputa
dall'altra la cera
mastica e sputa
prima che faccia neve

Stanotte è venuta l'ombra
l'ombra che mi fa il verso
le ho mostrato il coltello
e la mia maschera di gelso
e se lo sa mio padre
mi metterò in cammino
se mio padre lo sa
mi imbarcherò lontano

Mastica e sputa
da una parte il miele
mastica e sputa
dall'altra la cera
mastica e sputa
prima che metta neve

Ho visto Nina volare
tra le corde dell'altalena
un giorno la prenderò
come fa il vento alla schiena
luce luce lontana
che si accende e si spegne
quale sarà la mano
che illumina le stelle
mastica e sputa
prima che venga neve