Fabrizio De André

La Canzone Del Padre

Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente
e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro,
difficile, so di non essere riuscito a spiegarmi.

Fabrizio De Andrè, 1974

Siamo nel 1973, si respira ancora l'aria del Sessantotto e Fabrizio De Andrè decide di pubblicare Storia di un impiegato, un concept-album che è anatomia della vita e dei pensieri di un “colletto bianco” che folgorato dalle manifestazioni degli studenti (“Canzone del maggio”), a trent'anni scopre la sua passività verso la politica e la storia e decide di fare la sua parte. Con “La canzone del padre” siamo verso la fine della storia, con un racconto che ci parla d'amore, di difficoltà di fare scelte radicali e di paternità mancate.

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“Vuoi davvero lasciare ai tuoi occhi solo i sogni che non fanno svegliare?”: è la domanda ambigua del Giudice di “Sogno n. 2” con cui si apre questa canzone. E l'Impiegato, che non comprende appieno il significato della proposta, risponde così: “Sì, a patto di diventare una persona che conta, un potente”.
Il Giudice allora gli indica un posto e gli dice: “L'unico posto per te è quello che ha lasciato, morendo, tuo padre: sarai come lui, in un gradino di mezzo della piramide del potere. Fai quello che devi («Non dovrai che restare sul ponte/e guardare le altre navi passare/le più piccole dirigile al fiume»), ma non credere di poter gestire cose davvero importanti, quello non ti riguarda («le più grandi sanno già dove andare»)”.
E così l'Impiegato, dopo aver sfidato il potere, ne è diventato un ingranaggio anche lui, non è diverso dal Giudice che l'ha assolto («assoluzione e delitto, lo stesso movente»); ma c'è di più – e lo scopre con amarezza in questi versi – l'Impiegato è finito a seguire le orme di un padre che aveva in precedenza violentemente rifiutato, «ucciso in un sogno precedente», cioè nella traccia “Al ballo mascherato”, che racconta i desideri di potere del protagonista («E se tu la credevi vendetta/ il fosforo di guardia/ segnalava la tua urgenza di potere», “Sogno numero due”).

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Entriamo così nel vivo della canzone. Ci si presentano due scene famigliari, apparentemente differenti ma legate da un filo comune. Da una parte la famiglia di Berto, il «figlio della lavandaia»: di estrazione sociale povera, il ragazzo non può nemmeno frequentare la scuola come gli altri suoi coetanei, ma «preferisce imparare/a contare sulle antenne dei grilli», cioè imparare a contare nella vita quotidiana, come i pastori imparavano contando le pecore.
Oltre la povertà e una probabile assenza del padre, Berto deve però fare i conti anche con un distacco precoce dalla madre; se in passato l'umile lavoro della madre permetteva ai fanciulli di giocare al fianco delle madri - con le bolle di sapone, unico “giocattolo” che la famiglia si poteva permettere, sfruttando con un po' di fantasia gli stessi strumenti del mestiere – oggi il lavoro si svolge in grandi lavanderie industriali e le donne sono così costrette a lasciare i figli a casa, a crescere da soli, senza neanche «le bolle di sapone per giocare».

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È qui che De André ci dona un'immagine potentissima. Nella sua condizione di assoluta povertà, quando si ritrova davanti alla morte dell'amata madre, il ragazzo non può permettersi di darle il degno funerale che meriterebbe («seppelliva sua madre in un cimitero di lavatrici»); Berto prende allora il corpo della madre e gli dona dignità avvolgendolo «in un lenzuolo, quasi come gli eroi». Per un attimo non importa la cornice del «cimitero» fatiscente, non importano le «lavatrici» che hanno massacrato le mani della madre con ore infinite di lavoro. Ora davanti a noi ci sono solo la tenerezza di un figlio e un addio a una donna che, al pari degli eroi, ha sempre svolto il suo dovere.

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È un evento da cui Berto è sconvolto, distrutto; giovane, ha appena perso il suo unico punto di riferimento, si ritrova solo e spaventato, maledice Dio, incolpandolo della sua tragica vita e perdendo la fede («si fermò un attimo per suggerire a Dio/ di continuare a farsi i fatti suoi»). La sua paura è che il suo destino sia segnato, che resterà un povero sconfitto della vita, arreso alla sorte che non è in grado di cambiare. Decide così di fuggire, alla ricerca di una strada diversa, tentando disperatamente di combattere il suo “destino” («E scappò via con la paura di arrugginire»).
La battaglia è però troppo pesante per l’animo tormentato di Berto, che si arrende e si piega a un destino di sconfitto che tanto ostinatamente cercava di evitare; una scelta che lo conduce presto alla morte, come scoprirà l'Impiegato leggendo un necrologio sul giornale («il giornale di ieri lo dà morto arrugginito»). Berto sembra essere diventato un senzatetto, che nel momento in cui si è arreso ha anche smesso di prendersi cura di sé, lasciandosi morire «fra la gente che si lascia piovere addosso».

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Del tutto diversa, a una prima lettura, ci appare la situazione famigliare vissuta in casa dell’Impiegato. Alla fine del 1968 il protagonista ha optato decisamente per una vita sicura, scegliendo di dedicarsi a lavoro e famiglia («ho investito il denaro e gli affetti/banca e famiglia danno rendite sicure») e nonostante fin dall'inizio il matrimonio mostri la corda, l'impiegato non gli dà peso, non se ne preoccupa («con mia moglie si discute d'amore,/ ci sono distanze, non ci sono paure»). Col tempo però l'amore della moglie passa («ogni notte lei mi si arrende più tardi»), frequenta altri uomini, tra cui ne spicca «uno più magro» che cerca di portarla via («una valigia e due passaporti»).
È così che l'Impiegato capisce che sua moglie non lo ama più, rimanendo con lui solo per gli agi che il suo lavoro le offre («lei ha gli occhi di una donna che pago»). È così, la perderà, portata via dall'“uomo magro”, regalo dopo regalo («l'uomo magro ha le mani occupate/ una valigia di ciondoli, un foglio di via», che metaforicamente lascia all'Impiegato, come a dire “togliti di torno, lei adesso è mia”).
Ed è proprio grazie alla recente legge sul divorzio che a lei è permesso andare via e di cominciare una nuova vita, forse più felice. Ma per l'Impiegato tutto questo è inaccettabile, come sono inaccettabili i “tempi nuovi” a cui, perbenista com'è diventato, non si adatta, non si vuole adattare: il protagonista se la prende dunque con le forze dell'ordine, con lo Stato (il «commissario» a cui si rivolge è sineddoche per commissariato), a cui paga tasse e stipendi («io ti pago per questo»), perché «lei ha gli occhi di una donna che è mia», perché lei è sua moglie e l'adulterio femminile dovrebbe essere ancora reato, a lei non dovrebbe essere concesso andare via da lui. Ma il vento del Sessantotto aveva già spazzato via – grazie ad alcune sentenze della Corte costituzionale – le antiche leggi che punivano come reato penale l'adulterio femminile e maschile.

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A seguito della perdita della moglie, l'Impiegato diventa un padre disattento con il suo «ultimo figlio, il meno voluto», non riuscendo a impedire che, dopo le prime assunzioni di hashish («non ha più la faccia del suo primo hashish»), diventi un tossicodipendente, sviluppando una dipendenza proprio per una piaga che comincia a diffondersi in quegli anni, l'eroina. La droga lo catturerà, gli farà perdere tutti i soldi che ha («ha pochi stracci dove inciampare») e non lo farà riprendere più («non gli importa d'alzarsi, neppure quando è caduto»).
In fondo, pare suggerirci De Andrè, che differenza c'è tra Berto e il figlio dell'Impiegato? Che differenza c'è nel nascere in una famiglia povera o in una famiglia agiata, se entrambi i figli crescono senza la presenza dei genitori. Se entrambi cercano di scappare dalla loro vita, se entrambi si lasciano piovere addosso, se entrambi arrugginiscono.

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E forse è proprio guardando alla parabola del figlio che l’Impiegato comprenderà che per vincere il proprio “destino”, servono scelte nette, non ci sono scuse che tengano («i miei alibi prendono fuoco»). Con i suoi pensieri torna così malinconicamente ai suoi passati ideali politici, che vanno ancora messi alla prova («Il Guttuso ancora da autenticare», metonimia per I funerali di Togliatti (1972) e metafora della fede politica rivoluzionaria dell'Impiegato).
Ritrova in sé un nuovo coraggio e, a differenza dei due giovani, non si rassegna e sceglie di combattere una feroce lotta con sé stesso («adesso le fiamme mi avvolgono il letto»); arriva così a comprendere che «i sogni che non fanno svegliare» del Giudice sono le sue false sicurezze di ancoraggio all’ambiente famigliare e sociale che lo rendevano così passivo alla sua vita. Maledice dunque il giudice («Vostro Onore, sei un figlio di troia») per averlo ingabbiato in quei “sogni”, uscendo vittorioso dalla sua lotta («mi sveglio ancora e mi sveglio sudato»).
«Ora aspettami fuori dal sogno/ ci vedremo davvero, io ricomincio da capo»: la storia si conclude con una minaccia, rivolta dall'Impiegato al Giudice, al potere. Dopo aver avuto a lungo la “Bomba in testa” - e aver sognato di usarla contro i simboli del potere in “Al ballo mascherato” - ora, sì, si decide a fare la sua scelta per davvero, a diventare un “Bombarolo”. Ma qui comincia un'altra storia, per un altro racconto.

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Infine, chiediamoci perché questo racconto si chiama “Canzone del padre”. È semplicemente perché il protagonista eredita e finisce a fare la stessa vita del padre? In realtà, analizzando più in profondità il testo, diviene chiaro che la canzone è in realtà una riflessione profonda su quanto i fallimenti dei padri ricadano sui figli. È quello che è accaduto a Berto, finito a «lasciarsi piovere addosso», allo stesso figlio dell'Impiegato, che non ha mai ricevuto supporto da un padre, assente per quanto presente tra le mura domestiche, e a cui dunque «non importa di alzarsi neppure quando è caduto». E in fondo è lo stesso che accade all'Impiegato che, seguendo le orme del padre, sceglie una vita piena di angoscia, perché gli sta stretta, perché non gli è mai appartenuta.
Si parla dunque di paternità e dei sui fallimenti, un tema che è fortemente presente nella poetica di De Andrè, basti pensare a “Coda di lupo” (1978), altro grande confronto del cantautore con “gli anni '68”, in cui il protagonista prova inutilmente e per tutta la vita a non seguire le orme dei padri e finisce a non riuscire ad essere neanche padre, «bruciando venti figli sul letto di sposo». Ma si può chiudere il ciclo di fallimenti innescato dall'eredità dei padri?
De Andrè ha provato a rispondere a questa domanda con le sue stesse scelte di vita. Con un rapporto difficile con il padre - lo stesso padre che morendo lo ha salvato dal suo feroce alcolismo - è scappato di casa a 18 anni e dopo aver provato a intraprendere la carriera di avvocato, seguendo le orme del padre e del fratello, ha abbandonato la facoltà di Legge a solo sei esami dalla laurea, scegliendo di intraprendere la carriera di cantautore.
Di questa sua scelta radicale – e del coraggio che ha richiesto - gli saremo sempre grati, di fronte all'enorme bellezza della sue canzoni, che ogni giorno danno parole ai nostri sentimenti, in questi difficili giorni più che mai.

(Claudia Adamczuk e Luca Cirese)

Il racconto degli “Anni '68” secondo Fabrizio De André prosegue con Coda di lupo

Testo

“Vuoi davvero lasciare ai tuoi occhi
solo i sogni che non fanno svegliare”.
“Sì, Vostro Onore, ma li voglio più grandi.”
“C'è lì un posto, lo ha lasciato tuo padre.
Non dovrai che restare sul ponte
e guardare le altre navi passare:
le più piccole dirigile al fiume,
le più grandi sanno già dove andare.”
Così son diventato mio padre,
ucciso in un sogno precedente,
il tribunale mi ha dato fiducia:
assoluzione e delitto, lo stesso movente.


E ora Berto, figlio della Lavandaia,
compagno di scuola, preferisce imparare
a contare sulle antenne dei grilli,
non usa mai bolle di sapone per giocare;
seppelliva sua madre in un cimitero di lavatrici,
avvolta in un lenzuolo, quasi come gli eroi.
Si fermò un attimo per suggerire a Dio
di continuare a farsi i fatti suoi;
e scappò via con la paura di arrugginire,
il giornale di ieri lo dà morto arrugginito;
i becchini ne raccolgono spesso
fra la gente che si lascia piovere addosso.

Ho investito il denaro e gli affetti,
banca e famiglia danno rendite sicure:
con mia moglie si discute d'amore,
ci sono distanze, non ci sono paure;
ma ogni notte lei mi si arrende più tardi,
vengono uomini, ce n'è uno più magro;
ha una valigia e due passaporti,
lei ha gli occhi di una donna che pago.
Commissario io ti pago per questo,
lei ha gli occhi di una donna che è mia:
l'uomo magro ha le mani occupate,
una valigia di ciondoli, un foglio di via.

Non ha più la faccia del suo primo hashish,
è il mio ultimo figlio, il meno voluto,
ha pochi stracci dove inciampare,
non gli importa d'alzarsi, neppure quando è caduto:
e i miei alibi prendono fuoco,
il Guttuso ancora da autenticare,
adesso le fiamme mi avvolgono il letto,
questi i sogni che non fanno svegliare.
Vostro Onore, sei un figlio di troia,
Mi sveglio ancora e mi sveglio sudato;
ora aspettami fuori dal sogno,
ci vedremo davvero, io ricomincio da capo.

Traduzione in francese

CHANSON DU PÈRE

“Veux-tu vraiment laisser à tes yeux

Seulement les rêves qui ne réveillent pas ?”

“Oui, Votre Honneur, mais je les veux plus grands.”

“Il y a une place libre, c'est ton père qui l'a laissée.

Tu n'auras qu'à rester sur le pont

Et à regarder les autres bateaux qui passent:

Les plus petits, tu les dirigeras vers le fleuve,

Les plus grands, ils savent déjà où aller.”

Ainsi, je suis devenu mon père

Que j'avais déjà tué dans un de mes rêves,

La Cour a confiance en moi,

L'acquittement et le crime, c'est le même mobile.

 

Maintenant Bert, le fils de la blanchisseuse,

Mon copain d'école, préfère apprendre

A compter sur les antennes des grillons,

Il ne joue jamais avec des bulles de savon;

Il enterrait sa mère dans un cimetière de machines à laver,

Enveloppée dans un drap, quasiment en héros;

Il arrêta un moment pour suggérer à Dieu

De s'occuper de ses propres affaires.

Et il s'enfuit de peur de rouiller,

Le journal d'hier le donne pour mort rouillé,

Les croquemorts en ramassent souvent

Parmi les ges qui se laissent pleuvoir sur le dos.

 

J'ai investi mon argent et mes affections,

La banque et la famille donnent des rentes sûres.

Avec ma femme, on discute d'amour,

Il y a de la distance, il n'y a pas de peur.

Mais elle cède chaque nuit un peu plus tard,

Des hommes viennent, y en a un plus maigre,

Il a une valise et deux passeports,

Elle a les yeux d'une femme qui parle.

Commissaire, je te paie juste pour ça,

Elle a les yeux de ma femme à moi,

L'homme maigre a les mains occupées,

Une valise plein' de trucs, une feuille de route.

 

Il n'a plus l'aspect de son premier tarpé,

C'est mon enfant cadet, le moins désiré.

Il a quelques nippes dans lesquelles trébucher,

Il tombe, mais il n'a jamais envie de se relever.

Et mes alibis prennent feu,

Le Guttuso encore à expertiser…

Maintenant les flammes enveloppent mon lit,

Y a des rêves qui n'éveillent pas.

Votre Honneur, t'es un sal' trou du cul,

Je me réveille encore, trempé de sueur,

Tu m'attendras au dehors du rêve,

On va se rencontrer, je recommence à zéro.